IL PADRE SPODESTATO CAP. 1°: Nella natura, nella società, nell’anima. 1. Dalla preistoria ai padri della Bibbia e del Corano L’affermazione del ruolo del padre nella famiglia pare sia stato il risultato di un’evoluzione lenta e tutt’altro che semplice. Sostanzialmente la Preistoria non conosceva la figura del padre né il modello della famiglia, sostituiti i primi dalle donne-madri e la seconda da modelli associativi organizzati sul matriarcato, dove la donna esercitava una grande autorità mentre l’uomo non aveva alcun potere né diritto né dovere sui figli. La comparsa della famiglia patrilineare (ovvero quella che segue la discendenza paterna) è stata ricollegata alla scoperta della paternità, risalente a circa 4000-5000 anni fa, che gradualmente attribuì alla figura padre e al modello della famiglia una posizione sempre più assoluta. E’ così che la famiglia da matriarcale diventa patriarcale e che il padre diventa il capo assoluto di quest’ultima; alla madre rimaneva solo il compito di accudire i figli. 2. Padri e polis Licurgo, legislatore di Sparta nonché primo artefice della costituzione spartana, pretendeva che i figli non appartenessero ai genitori, ma allo Stato, tanto da non riconoscere ai padri il diritto di allevarli liberamente e autonomamente. I neonati, infatti, subito dopo la nascita, dovevano essere presentati in un luogo detto Lesche (luogo adibito a convegni, riunioni, ecc. dove sedevano i capi delle tribù) per essere osservati, di modo che se erano ben fatti se ne predisponeva l’educazione, altrimenti se malati se ne predisponeva la morte gettandoli giù di una rupe, perché tanto inutili sia per loro stessi che per gli altri. Per coloro che invece si salvavano, Licurgo predispose che all’età di sette anni dovevano essere potati in delle compagnie, affinché vivessero insieme secondo le stesse regole. Tale modello però e per fortuna non riscosse molto successo. Nella Grecia classica, invece, pare che i figli abbiano goduto di una certa autonomia, in quanto liberi di abbandonare la propria casa, di fondarne una nuova, di gestire il patrimonio personale, di fare testamento, ecc. Ma se da un lato Platone analizzando l’organizzazione familiare, riconosce tale autonomia dall’altro riconosce un’autorità del padre di potere eventualmente scacciare il figlio a seguito di un giudizio preso con la partecipazione della moglie e dei parenti. Anche Aristotele pose la sua attenzione sulla famiglia, e in particolare sui poteri domestici diretti principalmente all’educazione dei figli, quale componente essenziale di un assetto politico. 3. Il mito dell’onnipotenza del padre romano Dionigi di Alicarnasso (detto anche Dionisio, fu un famoso storico ed insegnante di greco antico, che visse durante il principato di Augusto) raccontava l’importanza fondamentale della patria potestà romana nella vita familiare e sociale. In particolar modo la città di Roma aveva affidato al padre ogni potere sul figlio per l’intero arco della sua vita, libero di poterlo incarcerare, frustare, uccidere, pure se avesse ricoperto cariche pubbliche, e lo stesso Romolo (il primo re nonché fondatore di Roma) ritenne infatti che valorizzare il patriarcato avrebbe conferito alla città fondamenta più solide e affidabili. E allora quale miglior rimedio se non delegare ai padri il controllo disciplinare dei figli maschi? Un compito che incontrava però il limite di non potere uccidere i figli minori di 3 anni a meno che non fossero affetti da deformazioni gravi, la cui verifica di tale stato ricordiamo spettava a 5 vicini prossimi. Dunque una figura domestica patriarcale e d autoritaria fu il fondamento dell’ordine sociale e politico romano, nonché esclusivo come lo definì Gaio, visto che in nessun altro popolo si ammetteva sui figli un tale potere disciplinare. Inoltre la patria potestà romana si segnalava soprattutto per una caratteristica, la permanenza nella vita del figlio sino alla morte del padre, salvo volontaria emancipazione; di qui la singolare figura del figlio in età matura, sposato con figli, ancora soggetto ai poteri paterni. Ecco perché il vocabolo familia, i giuristi lo identificarono nella comune soggezione di un certo numero di individui ad un unico soggetto ed un unico
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potere patriarcale, il quale aveva il dominio esclusivo sulla casa e un rapporto di durezza e intransigenza nei confronti dei figli, nipoti, ecc.. Cicerone affermava che il figlio temeva il padre come fosse un Dio. Nonostante nel tempo i costumi romani, nelle relazioni domestiche, si andavano evolvendo, l’arcaismo patriarcale non fu mai abbandonato e il padre rimase ancora per molto il simbolo del potere. 4. Un potere unitario e molteplice E infatti nell’esperienza romana la potestà si sostanziava in una varietà di poteri, patrimoniali e personali: - il potere maritale (mano, manus) sulla moglie; - il potere paterno (patria potestà, patria potestas) sui figli e sui loro discendenti; - il potere padronale (dominica potestas) sugli schiavi. Il potere paterno si sostanziava poi in tutta una serie di diritti che il padre vantava sui figli come quelli di seguito elencati 4.1 Diritto di vita e di morte 1. Il diritto di vita e di morte sui figli, rientrante tra i poteri patriarcali, serviva a configurare una patria potestà fondamentalmente illimitata, anche se Dionigi di Alicarnasso testimoniò che, sin dalla prima età monarchica, le cose sarebbero iniziate a cambiare con il divieto di uccidere la figlia primogenita e i figli maschi inferiori ai tre anni, così come anche lo stesso Romolo aveva stabilito. Anche i successivi re di Roma come Augusto, Traiano, Adriano, ecc. si dimostrarono poco accondiscendenti all’uccisione di un figlio, sia pure in presenza di motivi gravi. Fu però con la costituzione degli imperatori Valentiniano, Valente e Graziano, che si sancì definitivamente che ai padri competesse un mero potere correzionale, subordinato al controllo pubblico, e non di vita e di morte. 4.2 Diritto di soppressione e di esposizione 2. L’infanticidio arcaico prevedeva la soppressione fisica dei nati, sia maschi che femmine, o il loro allontanamento; si spiegava così il sacrificio mediante l’annegamento dei gemelli e l'uccisione della madre, in quanto il parto plurimo era considerato un crimine. 3. Altro era invece il diritto paterno d'esposizione, del quale Dionigi di Alicarnasso ricorda l’accertamento della deformità o della mostruosità, secondo cui il padre poteva mostrare il neonato solo dopo averlo esposto ai 5 vicini e avere ottenuto il loro consenso, in merito all’assenza di deformità. L'esposizione non necessariamente poteva sfociare in infanticidio, giacché una parte degli esposti poteva essere raccolta e fatta confluire nel mercato degli schiavi. Costantino al riguardo, sancì che chi avesse raccolto e allevato a sue spese l’infante abbandonato poteva conservarlo presso di sé come figlio o come schiavo senza che il padre naturale avesse più alcuna azione per recuperarlo. Successivamente invece l’esposizione dell’infante divenne reato. Significative sono poi le convenzioni sociali intorno al lutto per la morte dei figli che aveva una durata, in mesi, pari agli anni che essi avevano vissuto; invece per i bambini di età inferiore, il lutto comporta meno obblighi; infine se si trattava di bambini di età inferiore ad un anno, non si pratica affatto. 4.3 Diritto di accettazione dell’infante 3. Caratteristica ulteriore del diritto di esposizione era poi la facoltà tollere liberos, che significava afferrare i figli per riconoscerli come propri. Il neonato era depositato ai piedi del padre, che poteva raccoglierlo o meno, e quindi rifiutarlo o ammetterlo nella propria famiglia, dargli il proprio nome e sottoporlo alla propria patria potestà, impegnandosi nel contempo ad allevarlo e mantenerlo. 4.4 Diritto di abbandono nossale del figlio, diritto di vendita dell’infante
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4. Il diritto di abbandono nossale consisteva nel diritto di cedere alla parte lesa il figlio, come pure lo schiavo, che avesse compiuto qualche atto illecito, estinguendo così qualsiasi ulteriore responsabilità paterna. Tale pratica fu vietata dal diritto del tardo impero. 5.Il diritto di vendita dell'infante era consuetudine piuttosto diffusa, e al padre permaneva comunque il diritto di riscattare il figlio venduto, restituendo la somma ricevuta o offrendo uno schiavo. Diversa era invece l'antica vendita effettuata nelle forme della emancipazione (istituto giuridico del diritto romano che regolava il trasferimento del dominio su persone o cose), che non sottoponeva il figlio al diritto di proprietà di un altro paterfamilias ma lo poneva in una condizione simile a quella dello schiavo; tale vendita per emancipazione prevedeva 3 vendite fittizie, eseguite con il formalismo proprio del diritto romano, con le quali il padre liberava il figlio da sé. Per la figlia invece era prevista una sola vendita/mancipatio/ manumissio (nel diritto romano è l’atto con cui il proprietario libera un servo dalla schiavitù). 4.5 Imposizione e assenso matrimoniale Il matrimonio era materia ricca di contenziosi tra padri e figli, visto che quest’ultimi per potersi sposare dovevano avere anche il consenso degli aventi potestà. Il figlio che sarebbe infatti nato dal matrimonio privo di consenso diveniva nipote dell’avente potestà contro la sua volontà. 4.6 Diritti patrimoniali Il figlio mancava di capacità giuridica e subiva fortissime limitazioni anche nella capacità di agire; da questo punto di vista, infatti, non si distaccava molto dalla posizione della moglie in manu e dallo schiavo. Il principio generale era che quello ciò che il figlio acquistava, lo acquistava per il padre. Successivamente però si fece strada l'istituto del peculio (piccolo patrimonio), che consisteva nell’insieme dei beni che il padre assegnava al figlio. Di fatto, però, i beni restavano nel patrimonio e nella titolarità del padre, dal punto di vista sociale erano invece considerati patrimonio filiale ed erano quindi validi gli atti dispositivi eseguiti dal figlio. Con l’avvento dell’impero e con l’intento di incentivare il servizio militare si introdusse il cosiddetto peculio castrense: il patrimonio direttamente acquisito dal figlio con l'esercizio delle armi, di cui poteva disporre liberamente per testamento e per atti inter vivos; ad esso venne progressivamente affiancato il peculio avventizio: patrimonio proveniente dall’eredità materna (l’insieme dei beni appartenenti alla madre), di cui il figlio poteva disporre liberamente ma di cui il padre conservava l’usufrutto; e successivamente ancora venne introdotto il peculio quasi castrense: il patrimonio che il figlio si procurava tramite l'esercizio d'uffici pubblici . 6. La lesa maestà dell’autorità paterna Laddove il figlio fosse venuto meno al rispetto dell’autorità paterna la sanzione, a prescindere dalla morte, poteva essere la cosiddetta abdicatio, ovvero la rottura del legame familiare, la diseredazione, l’espulsione dal casato e la perdita del nome. Furono molti i casi di abdicatio. 7. Comunità e famiglia: il primo cristianesimo Il primo cristianesimo influenzò l’evoluzione della patria potestà, distaccandosi per un verso dalla figura tipica della patria potestà romana e attribuendo alla madre un ruolo e uno spazio più ampio, mentre dall’altro mantenendo alcuni tratti essenziali tipici. La patria potestà romana era dunque la cornice, ma i suoi contenuti erano diversi. 8. Figli venduti per debiti, figli oblati ai monasteri La vendita dei figli per debiti e i figli offerti ai monasteri furono due fenomeni significativi e paralleli tra la patria potestà romana e la patria potestà cristiana. I figli potevano essere venduti sia dal padre romano per debiti contratti che dal padre cristiano; quest’ultimo fu il caso degli oblati, i figli offerti ai monasteri per essere cresciuti e resi monaci, talvolta per reali convinzioni religiose, talvolta per opportunità economiche e
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spesso senza che i figli fossero minimamente d’accordo. La pratica dei figli oblati fu dibattuta durante il medioevo dalla stessa Chiesa, che finì per condannarla almeno formalmente. L’oblazione incominciava quando la mano del fanciullo veniva avvolta nel tessuto dell'altare e venivano vestiti con la tunica e con la cocolla (veste tipica degli ordini religiosi), infine dopo la tosatura dei capelli, venivano consegnati alla disciplina della ascesi (Regola di vita tesa a raggiungere, attraverso il distacco dalle cose terrene, quella purificazione dell'anima che consente di dedicarsi alla vita spirituale fino all'unione con la divinità). Nel frattempo i genitori si impegnavano a non offrire mai l’occasione per farli uscire dal monastero. 9. Come le aquile: i padri germanici ed il mundio In Germania il pater familias era titolare di un potere chiamato munt-mundium, una sorta di tutela globale sulle persone e sui beni domestici, idoneo a rappresentare la moglie, le figlie non sposate, i figli minorenni, i semi liberi e i servi. I maschi si svincolavano da tale potere una volta divenuti idonei alle armi; il raggiungimento della maggiore età venne talvolta determinato con il compimento dei 18 anni, talvolta con il compimento dei 12 anni, altre volte ancora con il compimento dei 15 anni ed in ogni caso con la maggiore età i figli maschi acquistavano la capacità giuridica e divenivano liberi di lasciare la casa paterna andando incontro al proprio destino, magari con una quota del patrimonio di famiglia, ripartito in base al numero dei figli più il padre; erano inoltre liberi nella scelta matrimoniale mentre per le figlie femmine fu sempre necessario il consenso del titolare del mundio. CAP. 2°: Della casa il re (l’antico regime dei padri) 1. Educare i figli per formare i padri Insieme ad un patrimonio materiale il padre medievale trasmetteva ai figli un patrimonio simbolico, il nome e poi il cognome, ma anche la somiglianza fisica e mentale. Pandolfini sosteneva infatti che compito del padre non era soltanto quello di riempire granaio e cantina ma di impartire un’adeguata educazione ai propri figli. Il compito dell'educazione finché i figli erano più piccoli era rimesso alla madre, poi la gestione ava pienamente al padre. 2. Reliquie d’Aristotele: la scienza medievale dei padri di famiglia Una testimonianza di Aristotele ci dice che nella civiltà europea del basso medioevo esisteva una specifica scienza della casa, detta economia; così come l’uomo si riconosce e s’individua nell’etica, la società nella politica, la casa si riconosceva nell’economia. Il governo della casa, secondo Aristotele si ripartiva in tre diverse categorie, a secondo dei destinatari domestici: • economia dispotica del padrone sul servo, col potere di un tiranno secondo il proprio comodo; • economia paterna del padre suo figlio, con potere di un re secondo amore; • economia nuziale del marito sulla moglie, con potere di un governatore di città. Il fatto che il maschio potesse e dovesse comandare la femmina e il padre potesse e dovesse comandare il figlio era una regola ben radicata, potendo il marito essere anteposto alla moglie perché appunto maschio e il padre essere anteposto al figlio perché più vecchio; dunque il perfetto rispetto all’imperfetto. Tommaso d’Aquino riconosceva che il padre in qualche misura fosse il re in casa propria, per questo si affiancava la figura del padre-marito rispetto alla casa a quella del principe rispetto alla civitas. 3. Padre e principe Dalle idee di Aristotele e di Tommaso d’Aquino, la relazione tra principato paterno e principato politico era ormai divenuta la comune opinione, anche se coloro che vi prestarono particolare attenzione sottolinearono le dovute differenze, in quanto il principe imperatore era un soggetto superiore a tutti non subordinato a
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nessuno, mentre il padre se era superiore ai destinatari domestici, sopra elencati, era comunque sottoposto al controllo e potere pubblico. Ma ancora dalla comparazione/confronto tra governo della famiglia e governo della città i giuristi trassero delle conclusioni dottrinali: - intorno all'obbedienza si dibatteva se, in caso di contrasto, il figlio dovesse attenersi all'ordine del padre oppure a quello delle autorità. Premettendo che l'uomo nasce anzitutto per Dio, poi per il padre e poi per la patria, quanto all’obbedienza dobbiamo obbedire più alla patria che ai genitori; - così come sui poteri del padre, anche sui poteri del principe dovevano incombere degli obblighi come assicurare ai propri sudditi le migliori condizioni di vita e far fronte alle necessità dei più deboli; - in materia di reati, vennero posti sullo stesso piano il crimine della lesa maestà e il parricidi. Il confine tra padre e principe si fissò nella massima per cui “ciascuno è re in casa propria”, e Guglielmo da Ockman scriveva infatti che nel nome di “Re” potevano rientrare non solo gli imperatori, i sovrani, i conti, i duchi, baroni,ecc. ma anche il padre. (La differenza tra sovrano e imperatore è che il primo ha un potere assoluto, indipendente e indivisibile; mentre il secondo ha il potere di comando su più territori che ne costituiscono il suo impero).
4. Padri umanisti al crocevia rinascimentale Nel rinascimento europeo, in merito ai poteri paterni, da un lato si rimarcava il rafforzamento della patria potestà nel quadro dell'assolutismo familista/della famiglia (quale vincolo di solidarietà che lega i membri di una stessa famiglia) tipico dell'antico regime, dall’altro la cultura rinascimentale tendeva a proporre modelli più morbidi in campo educativo, con particolare riguardo ai metodi scolastici. Fondamentale nel dibattito rinascimentale europeo fu lo scritto di Erasmo da Rotterdam. Punto di partenza era il doppio significato del termine latino liber, figlio o libero, dal quale il padre doveva augurare l'emancipazione del figlio e trattarlo in modo confacente alla dignità di un libero cittadino. Al riguardo Erasmo sosteneva che i genitori non potevano ben educare i figli se quest’ultimi li temessero, avessero terrore di loro; dovevano quindi, prima essere amati e poi educati, così da non mostrare terrore ma rispetto. Rievocando il caso del cavaliere romano Aussone che, per aver ucciso il figlio a frustate, fu quasi linciato nel foro da Ottaviano Augusto, Erasmo ne trasse spunto per criticare con asprezza l'abuso dei castighi fisici. Alle riflessioni di Erasmo si congiunse poi il pensiero di Montaigne che condannava le punizioni corporali che i padri infliggevano ai figli per fini educativi, in quanto non era sulla violenza e sulla freddezza che il rapporto tra padri e figli doveva impostarsi, dovendolo così da rigido e rigoroso trasformare in affettuoso. Dunque Montaigne, come altri, prediligeva un ammorbidimento della patria potestà ed evidenziava il naturale sentimento che doveva legare il generante al generato, tanto che in un dialogo con il maresciallo Montluc, testimoniò come quest’ultimo fosse profondamente dispiaciuto e rammaricato/amareggiato per non avere saputo esprimere tutto il suo affetto al figlio, morto prematuramente, per non avergli dato la giusta confidenza e avere posto sempre una certa distanza, per non averlo conosciuto veramente, per avergli mostrato solo durezza e disprezzo. Da qui infatti l’intellettuale se rifletteva sull’irragionevolezza di una patria potestà praticata sui figli senza alcuna naturale affettuosità. Come potevano questi padri non provare affetto e amore per i propri figli? Del resto l’amore è un sentimento intimo che non deve sottostare ad alcun regola e deve anzi essere espresso come meglio si crede, senza per questo temere di perdere il rispetto, l’obbedienza e la credibilità dei figli. Sulla stessa linea di pensiero si schierarono anche altri esponenti della vita quotidiana del ‘500, e non solo, dai quali emergeva un modello di padre sensibile e responsabile; come anche Massimo d’Azeglio che più tardi, durante la Restaurazione, individuerà una figura intermedia del padre, capace sia di tenere conto dei diritti dei figli e allo stesso tempo di impartire un’adeguata disciplina educativa.
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Ma al contrario non mancò chi sosteneva invece la durezza e la rigorosità dei rapporti tra genitori e figli, tra cui Thomas More, secondo cui l’ubbidienza e la soggezione nei confronti del padre dovevano essere assolute e le trasgressioni prevedevano il rimprovero e la frusta. 5. Padri cattolici, padri protestanti Con l’avanzare del secolo anche un movimento religioso invogliava ad un ammorbidimento della patria potestà: - nella riforma cattolica San Giuseppe diventò l’icona del padre perfetto, padre umile, responsabile, educatore, proteso verso il bene del figlio ma subordinato al dettato religioso e al superiore Padre celeste. La comune opinione nella trattatistica cattolica da un lato criticava i padri prepotenti e rabbiosi che per niente usavano violenze e castighi troppo duri sui figli; ma dall’altro criticava anche i padri permissivi, altrettanto pericolosi di quelli eccessivamente severi, soprattutto presenti tra nobili e ricchi, perché talmente indulgenti sui figli da crescere senza regole e rispetto. - Diversa era invece l’impostazione in campo protestante. Lutero richiese l’intervento statale dell'educazione dei figli, laddove i genitori non avessero rispettato i loro doveri educativi, potendo così la comunità subentrare al loro posto. Genitori e tutori dovevano infatti mandare i loro bambini a scuola in modo che nella loro prima infanzia imparassero a pregare e a conoscere Dio e acquisissero disciplina, decoro e capacità oneste. Dunque i genitori avevano un obbligo di obbedienza che secondo Lutero era di fondamentale importanza, in quanto era l’obbedienza a tenere in ordine il mondo, scopo perseguibile solo se si interveniva sugli essere umani fin dalla loro infanzia, preparando loro a sottomissioni più lievi per essere poi in grado nella vita di saper resistere a sottomissioni più difficili. Questa preparazione avveniva appunto attraverso un’adeguata educazione, mista tra durezza e permissività. Da qui la consapevolezza che la famiglia si presentasse sempre e comunque come modello dell’intera società, ciò che andava cambiando era il modo con cui tale modello si attuava. Nella giurisprudenza se del ‘500 qualcosa infatti iniziava a muoversi, le denunce dei figli maltrattati dal padre trovarono accoglienza presso i tribunali, il problema che invece rimaneva quello delle coazioni matrimoniali. Il consolidamento del matrimonio nel ‘500 conferì al padre un ruolo essenziale al centro della famiglia, delineando una sorta di monarchia paterna sulle scelte matrimoniali dei figli. Ecco che allora il controllo paterno sul matrimonio dei figli e sulla devoluzione del patrimonio divenne una colonna portante dell'ordine sociale, anche se la Chiesa cattolica, a dispetto di ciò dispose la validità del matrimonio anche senza il consenso paterno, pur riconoscendone la disonestà, al fine di salvaguardare il principio della consensualità. Ad ogni modo l’autorità paterna in campo matrimoniale rimarrà vigente fino all’arrivo delle teorie illuministiche. 6. L’esasperazione di un padre filosofo: Girolamo Cardano (esperienze) Il pavese Girolamo Cardano fu protagonista sia come padre che come trattatista/autore in una storia dei poteri paterni. Il Cardano ebbe tre figli e con tutti e tre dovette affrontare gravissimi problemi che cercò di alleviare con la scrittura. Ma i suoi problemi in realtà cominciarono fin da piccolo, come se già da allora si lasciava presagire qualcosa di davvero brutto. La madre di Girolamo infatti, dopo la perdita di altri suoi 3 figli a causa della peste, durante la gestazione, in preda alla depressione, aveva tentato di ucciderlo. Quando poi Girolamo, crebbe, si sposò e a sua volta divenne padre, i guai iniziarono già dal primogenito Giovanni Battista, il quale si innamorò di una donna di mala fama e sposò nonostante l'opposizione paterna; presto però sfinito dalla condotta di vita della moglie, pensò bene di liberarsene, ma la donna non mori; venne allora arrestato e reo confesso, fu decapitato. Della figlia Chiara, Girolamo si lamentò invece della sua incapacità di avere figli perché sterile, mentre del piccolo - Aldo, perché colpevole di avere sperperato una grande quantità di denaro e di avergli mancato di rispetto rivolgendogli gravi calunnie, ingiurie e infamie.. tanto da decidere con atto notarile di diseredarlo. Girolamo rettificò infatti molte volte le sue idee sui vari
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figli e sul testamento, alla fine, in quello definitivo, decise di istituire erede universale il sedicenne nipote, figlio del primogenito. Il Cardano, come trattatista, proclamava invece la necessità di una educazione mite e diligente che variasse in ordine ai vizi dei figli; per i vizi più lievi il padre poteva fingere di nulla, i vizi piccoli potevano essere oggetto di rimproveri e sgridate, quelli medi oggetto di qualche minaccia, mentre i vizi più gravi dovevano punirsi con la frusta, e quelli gravissimi con la privazione del cibo. Tuttavia, se queste erano le sue considerazioni sui rapporti tra padre e figli, le sue vicende personali lo indussero a rimpiangere la genuina patria potestà romana e a condannare l’ammorbidimento dei suoi tempi, di cui fin’ora abbiamo parlato. 7. Le asprezze di un padre poeta, Battista Guarini (esperienze) Battista Guarini fu un padre duro e intransigente, tanto da essere addirittura scontento di non potere disporre con libero arbitrio sulla vita dei figli. Tutto cominciò quando il Guarini stabilì, con autorità paterna, che il figlio Alessandro sposasse una nobile e ricca se; dapprima Alessandro si oppose, poi per paura di essere disconosciuto acconsentì. La conseguenza, così come l’antico regime voleva, fu che il padre del marito, quindi il Guarini, ottenesse il mandato ad amministrare i beni della nuora, con l’obbligo di mantenere gli sposi. Ma quando Alessandro richiese maggiori diritti al padre, non solo quest’ultimo lo cacciò insieme alla moglie, ma i beni di quest’ultima divennero automaticamente di sua proprietà. Il figlio allora chiamò in giudizio il padre e l’allora duca D’Este tentò una riconciliazione, che però durò poco. In realtà la storia si susseguì in una serie di liti e riconciliazioni, fino alla morte dello stesso Battista. Con le altre 5 figlie, le cose non andarono certo meglio, anzi.. 2 di esse finirono in convento, di una non si seppe nulla e le altre 2 si sposarono, ma poi una di esse venne uccisa dal marito. 8. Una patria potestà antica e moderna Ma la patria potestà come si costituiva? - Per via del matrimonio legittimamente contratto; - per via di una sentenza definitiva che deliberava che quello fosse figlio di..; - per via di un’adozione; E quali erano gli effetti della patria potestà? - Uno riguardava gli acquisti; - un altro l’amministrazione dei beni avventizi; - un altro ancora nell’impossibilità di citare in giudizio il padre. Infine la patria potestà come si scioglieva? Per emancipazione. L’emancipazione altro non era che il venire meno della patria potestà, nel momento in cui il figlio si poneva fuori della potestà del padre. Doveva necessariamente dichiararsi presso il giudice ordinario o straordinario competente, oppure presso colui al quale ciò competeva per consuetudine, e doveva necessariamente concorrere la volontà sia del padre che del figlio, visto che il padre poteva emancipare il proprio figlio ma non vi era costretto e il figlio veniva emancipato solo con la sua volontà, non senza. Per questo tale atto di emancipazione si diceva consistere in una giurisdizione volontaria non contenziosa, e sembrava essere obbligatoria la forma scritta. Dunque la materia dell’emancipazione rivestì particolare importanza perché rappresentava una vera e propria limitazione alla patria potestà e nell’esperienza italiana non fu la sola, visto che la patria potestà ne conobbe altre di limitazioni normative e consuetudinarie, basate su diversi fattori: • l’età del figlio; • l’esercizio della mercatura/attività commerciale da parte del figlio; • la condizione di separata economia, nel caso il figlio avesse lasciato la casa paterna per andare a vivere a proprie spese; • l’aver contratto matrimonio, anche se ciò valeva comunemente più per la figlia, che per il figlio; • l’emancipazione volontaria o coatta per abuso della patria potestà;
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ulteriori modi di estinzione della patria potestà quali la morte naturale o morte civile del padre, gli uffici ricoperti del figlio risultanti incompatibili con la soggezione al padre, ecc. Ma fondamentalmente a chi giovava l’emancipazione? Nella maggior parte dei casi si diceva giovasse al figlio ma spesse volte anche al padre; a tal proposito il problema che nasceva riguardava il cosiddetto premio dell'emancipazione, ovvero sorgeva il dubbio se doveva essere assegnato dal padre al figlio o se doveva essere invece assegnato dal figlio al padre. Bartolo non aveva dubbi, era al padre che spettava un’eventuale compenso per la perdita di un potere come la patria potestà, visto che di suo il padre dava già come compenso al figlio l’eseguire l’atto di liberalità. L’emancipazione doveva considerarsi insomma una sorta di manomissione, diretta al conseguimento della libertà, con la presenza della volontà di entrambi le parti; infatti l’emancipazione come pena, non condivisa cioè dal figlio, andava a coincidere con l’abdicatio o la cacciata dal casato. Così come era necessario un atto scritto e solenne, allo stesso modo era però possibile che la patria potestà potesse anche cessare tacitamente, per fatti concludenti, indice della concorde volontà delle parti, come il caso della cosiddetta emancipazione sassone, consistente nell’allontanamento del figlio dalla casa paterna per sposarsi e per vivere in separata economia. Infatti se il figlio viveva e lavorava separatamente dal padre, si presumeva emancipato perché ormai in grado di divenire adulto e formarsi una famiglia propria; in realtà sempre una presunzione rimaneva, visto che nonostante tali elementi di separazione e indipendenza il figlio e il resto della sua famiglia potevano comunque rimanere soggetti al potere del padre/suocero/nonno. Per questo i giuristi lessero tale prassi come una presunzione, posto il decorso di un certo lasso di tempo, variabile dai 10 ai 20 anni. Premesso che la patria potestà doveva considerarsi concepita nell’interesse del padre, quale capo della famiglia, definito tale perché dotato di un potere largamente autonomo e privo di oneri e condizioni, in che cosa consisteva giuridicamente la potestà dei genitori? La possibilità paterna di rivendicare il figlio, oltre che i suoi diritti personali e patrimoniali, induceva verso l’idea di una sorta di diritto reale, e si discuteva se il padre avesse il figlio in proprietà o in possesso; Rosmini ad esempio definì la patria potestà come l’insieme di quei diritti, sui figli, tipici della proprietà esistenti per il semplice fatto di essere genitori, ovvero autori dei figli generati e dunque proprietari del frutto creato. O ancora Kant che definì la patria potestà come una sorta di possesso e che vedremo meglio più avanti. I trattatisti in ogni caso si soffermarono ad individuare gli effetti giuridici ricollegabili alla paternità: • la vendita dei figli per necessita di fame; • l’amministrazione dei beni dei figli; • i diritti sui peculii (castrense, quasi castrense, avventizio, ecc.); • il diritto del padre di agire per l'ingiuria recata al figlio, visto che l’ingiuria al figlio era un’ingiuria al padre; • il diritto del padre di uccidere la figlia colta in adulterio; • l’obbligo per il figlio di seguire la religione paterna; • l’obbligo di educare e mantenere i figli; • l’obbligo di istituire il figlio come erede; • l’obbligo di dotare la figlia; • il divieto di imporre il matrimonio ai figli con violenza; ecc.. Le ragioni dell’affetto Una domanda spesso comune era: ma i figli dovevano preferire più il padre o la madre? Tommaso d’Aquino, che si era già posto il problema, optò per una soluzione pragmatica/concreta/pratica da valutare caso per caso, anche se la preferenza sembrava doveva andare al padre. I giuristi basso medievali italiani esaltavano invece l'amore materno, così come nella scuola giuridica tedesca dell’Usus Modernus Pandectarum non fu difficile rintracciare dissertazioni/esposizioni, trattazioni che ipotizzassero una potestà
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materna, riconoscendo ad entrambi i genitori il potere di correggere e di esigere certe opere, ed in taluni casi (educazione delle figlie) facendo prevalere il parere della madre. La comune opinione, tuttavia, considerava la madre assolutamente inidonea alle necessità dei figli, il che per automatica esclusione attribuiva tutti i poteri al padre; anche nel caso fosse divenuta vedova la madre non diveniva titolare di patria potestà sui figli, solo titolare di una tutela comunque divisa con un tutore scelto tra alcuni parenti maschi del defunto. Per questo si riteneva che la soggezione verso la madre fondamentalmente non fosse temuta e che il rapporto tra madre e figli era nella maggior parte dei casi simile a quello di 2 estranei. Era dunque chiaro che l’educazione del padre fosse indubbiamente più affidabile. Di esso era inoltre chiaro che l’amore verso i suoi figli superasse ogni altro, ma non pareva equamente distribuito fra la prole: secondo una presunzione giuridica, infatti, il padre avrebbe prediletto i figli maschi perché era attraverso loro che avrebbe tramandato la dignità e il casato per generazioni. 9. Le ragioni della forza In merito alla patria potestà paterna significativo fu inoltre il dettato di Alfonso X. In tale saggio Alfonso X delineò un potere correzionale moderato inquadrato nel dovere di educazione, che consisteva nel correggere, istruire ed ammonire; da come il castigo veniva impartito si poteva ben intuire se venisse erogato per istruire o per delinquere, ovvero per correggere o per far del male. Da qui diversi erano i criteri per giudicare se il castigo rientrasse nell’una o nell’altra ipotesi; ad ogni modo fuori dai casi di uccisione e di eccessiva ferocia, considerati gravissimi, tutti gli altri casi erano ritenuti di lieve correzione. Per le punizioni appena più gravi erano poi necessarie due condizioni: - una oggettiva, che il figlio ribelle venisse comunque punito con moderazione, - una soggettiva, che venisse punito con la sola volontà di emendare e correggere al fine di insegnare i buoni costumi al figlio. Erano allora due i metodi che se ne deducevano, per educare i propri figli: - quello meno severo basato sui rimproveri, sulle ammonizioni, sugli avvertimenti, ecc.; - quello più severo basato sui castighi e punizioni. Ma la correzione poteva assumere anche altre forme: - affidare i figli al governatore di navi così che venissero sottoposti alla dura disciplina nautica per 2 o 3 anni; - rintanare i figli scostumati ed impertinenti/maleducati in degli stabilimenti per fare la fame ed essere sottoposti a duri lavori; - l’espulsione del figlio dal casato. Venivano invece sempre e comunque esclusi le eccessive punizioni e violenze che mettessero in pericolo la vita stessa del figlio; anche se al padre era pur sempre riconosciuto il diritto di uccidere la figlia, colta in adulterio, insieme all’amante; così come gli era riconosciuto il diritto di uccidere il figlio maschio colto in adulterio con la matrigna. Una alternativa, a tali metodi correzionali, era poi individuata nell’istituto del discolato, per il quale i figli ribelli erano ricondotti nella più generica categoria dei discoli/indisciplinati/disobbedienti, disturbatori dell’ordine pubblico e inquinatori del buon costume; il discolato si sostanziava in una sorta di arruolamento militare coatto, dietro denuncia dei padri, sacerdoti o ufficiali di polizia, il cui fine era quello di imporre un regime duro e inquadrato come quello militare, più efficace rispetto all’insufficiente regime familiare. Spesso erano anche i parenti del discolo a richiedere l’arruolamento forzato. Di fronte a tutte queste varie alternative educative e correzionali il figlio non doveva mai permettersi di difendersi né di reagire e ciò perché “se lecita era l’offesa illecita era la difesa”; ad ogni modo l’eccessivo potere paterno, l’ingiuria intollerabile o il castigo disumano abilitavano, il figlio, rimasto comunque inattivo di fronte al padre, a pretendere dal giudice l’emancipazione coatta.
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Anche nell’esperienza spagnola fu possibile notare esempi interessanti di patriarcato. Anche qui il padre aveva il diritto e il dovere di correzione verso i figli e verso tutti coloro vivevano nella sua casa, da esercitare con misura e pietà. I figli potevano solo in casi particolari essere legittimati a disobbedire: - quando ciò che gli veniva comandato dal padre era peccato; - quando il padre infliggeva un danno grave alla loro vita; - quando venivano castigati senza pietà dal padre; - quando il padre induceva la figlia a prostituirsi. Valevano anche qui le diverse forme di educazione e correzione prima visti. 10. Quando il figlio si sposa Superata una certa soglia d’età (25 anni per le femmine, 30 anni per i maschi) i figli divenivano legalmente emancipati con la libertà matrimoniale, il cui unico dovere rimaneva quello di informare i genitori sui propri progetti nuziali. L’importanza del tema della libertà matrimoniale dei figli di famiglia nelle società d’antico regime era evidente, il matrimonio era infatti uno strumento patrimoniale, uno strumento di visibilità cetuale, uno strumento di alleanze ecc.. L’intento dell’autorità pubblica, in merito alle uguaglianze e disuguaglianze cetuali, fu quello di intervenire per limitare ed eventualmente sanzionare i matrimoni di disparità fra nobili e non nobili. Questa concezione laica della parità cetuale contrastava con quella canonistica della libertà matrimoniale, che privilegiava non la posizione sociale per fini contrattualistici - individualistici quanto il matrimonio come sacramento, come libera convinzione di unirsi per amore ad una’altra. Ad ogni modo il contrasto tra necessario consenso paterno e libertà matrimoniale del figlio terminò con l’approvazione da parte del Concilio di Trento del canone che formalizzava la liceità del matrimonio senza il consenso, fermo restando il dovere di chiederlo; se poi il figlio non lo riceveva e si sposava contro il volere del padre, il matrimonio così celebrato/sine consensu patris rimaneva comunque valido. Vediamo tale aspetto nel dettaglio. - La conclusione di un matrimonio senza il consenso del padre: Il figlio era tenuto a richiedere l’autorizzazione paterna, e poi avrebbe potuto convolare a nozze anche in caso di disaccordo; si trattava di garantire quel minimo di rispetto filiale (del figlio verso il padre) che permettesse di conciliare libertà matrimoniale e rispetto dell’autorevolezza paterna. E allora un famoso teologo Sanchez alla domanda: “che scopo aveva richiedere il parere del padre, e non il consenso, se poi il figlio poteva disattenderlo e sposarsi comunque?”rispondeva che tale richiesta di parere aveva al contrario grande rilievo; perchè alla notizia appresa il padre avrebbe eventualmente potuto mettere in guardia il figlio da possibili raggiri, ed inoltre che il figlio avrebbe dovuto comunque rispettare il parere paterno nel caso in cui il suo progetto nuziale violasse il ceto d’appartenenza o producesse scandalo, ecc. Dunque l’onere informativo non era solo un atto di rispetto ma era soprattutto uno strumento concreto che permetteva sostanzialmente l’applicazione di una potestà civile paterna. - Il rifiuto di un matrimonio imposto o già promesso dal padre: diverso era il problema se i figli fossero tenuti oppure no a contrarre matrimonio promesso dai genitori, già in tenera età. A tal proposito c’era chi sosteneva che il figlio una volta giunto all’età legale (per contrarre matrimonio) avrebbe dovuto adempiere alla promessa paterna, a patto che però non si trattasse di matrimonio tra ceti diversi (disparaggio); mentre c’era chi sosteneva al contrario la libertà matrimoniale e dunque che il figlio avrebbe potuto disattendere la promessa paterna. Secondo quest’ultimi, infatti, il padre peccava irreparabilmente se imponeva al figlio un certo matrimonio, cui conseguiva la nullità dello stesso, ciò che invece si riteneva ammissibile era solo una moderata/controllata coazione/imposizione, a patto però che il figlio avesse liberamente manifestato l’intenzione di sposarsi. Il teologo e canonista Bossi, nel favorire la libertà matrimoniale sosteneva che, nonostante ai genitori spettasse provvedere alle nozze dei figli, quest’ultimi nella scelta matrimoniale non erano obbligati
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ad obbedire alla volontà genitoriale, ma dovevano rispettarla evitando di recare grave ingiuria alla famiglia. Insomma Bossi riteneva che non era necessario il consenso paterno per potersi sposare ma solo il suo parere, sufficiente ad escludere irriverenza/mancanza di rispetto e disprezzo. In questa prospettiva era quindi il diritto canonico a fissare i requisiti di validità del matrimonio e i giuristi esperti ebbero parecchie difficoltà nel seguire lo schema rigido canonististico-tridentino, perché se da un lato il concilio tridentino dichiarava efficace e valido il matrimonio contratto senza consenso paterno dall’altro consentiva comunque al padre di poterne impedire la conclusione ritenendo che, seppur il matrimonio era un grande sacramento, sacrificarlo era meno grave che denigrare/offendere l’autorità paterna. Il padre, allora, una volta impedite le nozze inopportune avrebbe poi dovuto impegnasi per predisporne altre. Anche la Rota bolognese fu sottoposta ad una delicata controversia domestica, i cui protagonisti furono una moglie, il marito e il padre della moglie che la figlia citò in giudizio per averle negato la dote a causa di un matrimonio non consentito. Nell’emanazione della sentenza il giudice evidenziò tre diversi elementi: il riconoscimento della patria podestà, ovvero che i coniugi, prima di sposarsi, avevano informato il padre della loro intenzione, compiendo così l’atto di dovuto rispetto e onestà; il favor matrimonii, ovvero che i figli una volta giunti i 25 anni potevano sposarsi a prescindere dalla volontà del padre, ciò anche per rimediare ad una eventuale negligenza di esso a far sistemare la figlia o figlio; la tutela dell’onore cetuale, ovvero che il matrimonio in questione era del tutto degno, avendo il marito una casa di proprietà, un buon lavoro, un modesto patrimonio e una buona fama. Dalla cui valutazione complessiva dichiararono legittima la richiesta della figlia e fissarono a carico del padre l’obbligo di assegnare la dote alla figlia. Era quindi evidente come il giudice avesse da un lato rispettato il principio canonistico della libertà matrimoniale ma dall’altro avesse accertato anche il dovuto riconoscimento all’autorità paterna. Punizioni patrimoniali e successorie potevano poi disporsi dal padre nei soli casi in cui non fosse stato interpellato prima delle nozze. 11. La condizione dei servi di famiglia La servitù domestica fra medioevo ed età moderna perse un bel po’ del suo spessore sociale, anche se nell’antico regime i servi di casa erano sempre considerati una colonna portante della famiglia. Il servo domestico si diceva fosse famulus/famiglio, ovvero parte integrante della famiglia, ma la sua posizione resta ben distinta sia da quella della moglie che da quella dei figli. I servi dei nobili erano poi considerati dal diritto comune di migliore condizione rispetto ai servi dei plebei ed erano anche gratificati da una maggiore tutela giuridica. Il famulus o famiglio o servo era colui che viveva a spese e nella casa di un altro, prestando quotidianamente una piena disponibilità di servizio; un uomo libero insomma, che per povertà e bisogno era costretto a farsi servitore di altri. Il rapporto erile/padronale (ovvero di servitù e di signoria) era caratterizzato dall’assenza di un impegno reciproco (sinallagma), di una causa che giustificasse l’assunzione di un obbligo tanto grande di fedeltà e di una assoluta disponibilità di servizio, i cui limiti erano vagamente individuati e i cui doveri erano altrettanto genericamente fissati (potendo quindi comprendere la qualsiasi cosa). Un profilo decisivo a qualificare il rapporto erile / padronale fu poi quello del diritto del servo domestico a ricevere la mercede, che Tasso come prima detto individuò quale elemento essenziale del rapporto, e che i giuristi discutevano se fosse un diritto sempre dovuto o solo in casi particolari, come in quello di malattia. E ancora se il padrone in uno scatto d’ire avesse cacciato fuori di casa il servo, il salario gli spettava più? Gli spettava ma a patto che ritornasse alle solite faccende domestiche. Si discuteva poi se il pagamento del salario fosse un obbligo inevitabile per il padrone oppure no; se nulla era stato tacitamente o espressamente stabilito la comune opinione riteneva che al servo non spettasse nulla, secondo altri bisognava invece operare per presunzione e valutare se solitamente il padrone pagava il servo oppure no, secondo altri ancora il salario era invece
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dovuto. Ad ogni modo ne era ammessa la fungibilità con vitto e alloggio, mentre i vestiti dovevano considerarsi in usufrutto. Circa invece la scelta del servo, il padrone poteva effettuare una sorta di selezione prendendo informazioni, facendo fare un periodo di prova, sottoponendoli a prove fisiche, ecc.; c’era chi riteneva che i giovani fossero più idonei, in quanto più facili da gestire. Altri problemi riguardavano le serve domestiche, nei cui confronti la dottrina giuridica arrivava ad ammettere parzialmente gli eventuali commerci carnali più o meno imposti dal padrone, sulla presunzione che solitamente le domestiche sono meretrici/prostitute; i manuali per il buon padre di famiglia esortava infatti le donne nubili a non servire in casa di uno scapolo. Un ultimo profilo del rapporto tra servo e padrone era quello del potere punitivo di quest’ultimo, per il quale Tasso era contrario ad ogni castigo corporale, mentre la dottrina giuridica era invece assai meno drastica, giustificandosi spesso dietro il confine di “una certa moderazione”.
CAP 3°: Unita, maschiezza, proprietà, perpetuità 1. L’apoteosi del padre: Louis de Bonald Louis de Bonald, il più attento pensatore sui poteri domestici, scriveva: “la società è tutta quanta paternità e dipendenza”; la triade pade-madre-figli si concretizzava nella seguente maniera: - relativamente alla struttura della famiglia , il padre esprimeva la causa la madre rappresentava il mezzo i figli rappresentavano l’effetto, - relativamente alle relazioni interne il padre esprimeva il potere, la madre rappresentava il ministro, i figli rappresentavano la soggezione. Dunque nella famiglia il padre era la causa e il potere, il cui compito principale consisteva nella difesa della famiglia e nell’imposizione di vere e proprie leggi. La madre rappresentava invece il mezzo e il ministro, ovvero lo strumento necessario per l’esercizio del potere domestico del padre; era insomma autorità anche la madre ma non per virtù quanto perché autorizzata dal marito. I figli rappresentavano infine l’effetto della famiglia e la soggezione; tali rimanevano finché viveva il padre costretti ad onorare, obbedire ed adempiere ai doveri di casa. Si evinceva chiaramente come tutti i componenti della famiglia dovessero sottostare al padre. 2. Perplessità concettuali nella cultura italiana preunitaria Durante la Restaurazione si esaltò l’analogia fra potere paterno e potere politico, in un dibattito che coinvolse molti intellettuali, e tra essi uno dei più moderati fu Pietro Baroli, il quale riprendeva e accentuava la corrispondenza dell’universo domestico con quello statale, definendo: - il fine, rappresentato dai figli di famiglia per il padre e il popolo per lo Stato; - i mezzi, rappresentati dalla patria podestà per il padre e dalla sovranità per lo Stato; - il principio direttivo, rappresentato dal padre per la famiglia e dal principe per il popolo; la cui caratteristica comune di tale corrispondenza era la subordinazione del soggetto inferiore a quello superiore, così il figlio soggiace al padre, la moglie al marito, i sudditi al sovrano, il cattolico alla Chiesa, ecc. 3. Inquiete anticipazioni: qualche appunto sfogliando Kant ed Hegel
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- Kant: dedicò alla famiglia e alle sue dinamiche un’attenzione minore rispetto ad Hegel, anche se i suoi commenti rimasero comunque memorabili. Kant perseguì l’idea di elaborare per il contesto dei rapporti domestici una autonoma categoria di diritti, che denominò “diritti personali di natura reale”, consistenti nell'avere, oltre a se, un’altra persona come propria, o meglio di usarla come una persona e nel possederla come cosa. Ecco che, secondo Kant, la particolarità della famiglia domestica risiedeva nella procreazione come fatto produttivo di rapporti giuridici, da cui ne conseguiva il possesso del padre sui figli. - Hegel: riteneva che al vertice della famiglia ci fosse il padre e che i figli per avere la pienezza dei loro diritti, anche se emancipati, dovevano attendere la morte del padre. Erroneamente i genitori pensavano di potere fare dei figli ciò che volevano ma soltanto la società poteva avere una visione tanto ampia per un compito così delicato, tanto che se i genitori non avessero potuto provvedere all’educazione dei figli, non potendo insegnare loro come ci si inseriva in società, era la società stessa che interveniva. Era questo il nodo centrale del pensiero di Hegel: la necessaria tutela da parte della società e dunque dello Stato nei confronti dei bambini, che obbligava i genitori all’istruzione e alla disciplina dei loro figli (pensiero anticipato da Lutero). Il minorenne secondo Hegel, all’intero della famiglia, aveva il diritto di esigere un’istruzione che gli permettesse di guadagnarsi da vivere. In questa chiave Hegel condannava la tradizionale patria potestà romana, rigida e rigorosa. Da questo punto di vista la distanza da Kant, che sosteneva l’idea di un possesso sui figli, era evidente. Hegel infatti imputava ai figli la posizione di membri all’interno della famiglia e come tali il diritto ad essere educati e nutriti, senza alcun diritto invece per il padre di considerarli come cose o come schiavi (come avveniva nel diritto romano); l’eventuale punizione del padre doveva essere di natura morale incentrata sull’educazione del figlio (dunque a fin di bene) e rappresentata o attraverso la dimostrazione di buone maniere. 4. Uno Stato per i padri di famiglia: il Ducato di Modena Durante la Resaturazione nel Ducato di Modena dell’800 sco IV d’Austria - Este (Este o estense fu una famiglia ducale di Ferrara) riprese la disciplina d’antico regime e si prospettava con durezza un contesto politico-sociale su cui avviare la ripresa della patria podestà classica. E alcuni suoi memoriali ne furono la testimonianza. Ordine e subordinazione sarebbero nuovamente comparsi nelle case e nella domestica società. Ogni ceto poi doveva usufruire di un’educazione specifica: ai figli della nobiltà doveva offrirsi una cultura più raffinata; i figli della classe media dovevano formarsi in una preparazione tecnica utile per le attività professionali; i figli degli artigiani avrebbero dovuto godere di una limitatissima istruzione, tanto quanto bastava per soddisfare i loro bisogni. 5. Il Duca padre supplente Nella restaurazione sarà dunque il duca a farsi carico dei compiti paterni mal praticati. Infatti casi di soggetti schedati, controllati e talvolta internati ce ne furono abbastanza, come quello dei figli discoli/ribelli indisciplinati e disubbidienti ai padri, o dei matrimoni contrastati dalle famiglie che spesso sfociavano in liti e scandali; gli amanti che fossero stati costretti a stare lontano, rinchiusi in luoghi diversi per non vedersi, potevano essere condotti dalla polizia in carcere, finché quest’ultima non avesse accertato le motivazioni di fondo. 6. Un laboratorio culturale per la restaurazione del patriarcato Dunque il piano strategico per la ricostruzione di una società statica e patriarcale era quello di riproporre il modello della famiglia quale monarchia naturale accentrata nel padre e l’obiettivo era fondamentalmente quello di evitare una qualsiasi riforma, che appariva in quel momento molto pericolosa, perché si temeva l’istituzione di una “repubblica familiare” dove i figli venivano equiparati ai padri, o ancora la più temibile
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“repubblica rossa” dove i assoggettano i padre scambiandosene i ruoli, trascinando così la famiglia e la società nel disordine e nell’anarchia/ingovernabilità. Emergeva dunque un forte segnale d’invadenza dello Stato in ambito della società tanto che tutte le politiche del ducato furono allora coinvolte in azioni a favore della famiglia patriarcale.
CAP. 4°: La rivoluzione dei figli e l’agonia del patriarca 1. Una patria potestà naturale Il modello patriarcale e medievale della famiglia iniziò ad esser messo in discussione dal giusnaturalismo che lo sottopose ad un’intensa revisione razionale. La critica alla tradizionale idea della famiglia, e dei rapporti tra genitori e figli, presupponeva una riconsiderazione della società e dello Stato: - uno Stato non più fondato su un monarca per diritto divino, ma sul libero contratto fra individui, e - una famiglia non più fondata su un padre investito di un potere naturale, ma su un accordo con equa ripartizione di diritti e doveri. Tre furono le aree tematiche enucleate dai giusnaturalisti intorno ai poteri paterni: - fondamenta, intesa come legittimazione della patria potestà, dove il giusnaturalismo andò a confrontarsi su tre tesi quella gerarchica, che giustificava la superiorità del padre sulla base dell’atto di generazione, cioè sul diritto di chi donava a vita, o sulla base del principio giuridico dell’occupazione, per cui il figlio era considerato cosa di nessuno e dunque di appropriazione del padre che lo faceva proprio; quella contrattualistica, che legittimava il potere paterno sul tacito consenso dei figli; quella funzionale-utilitaria, che prevalse tra le 3 per la quale il potere del padre si giustificava con l’incapacità dei figli di gestirsi autonomamente e con la conseguente necessità di ricevere un’educazione per inserirsi in società. Il padre insomma riceveva un potere indispensabile per l’assolvimento della funzione sociale con il conseguente venir meno del carattere della perpetuità della patria potestà, in quanto al raggiungimento della maturità dei figli, il potere del padre doveva scomparire; - titolarità, le scuole giusnaturalistiche furono concordi nell’attribuzione a entrambi genitori della patria potestà, oscillando tra una effettiva potestà congiunta e una potestà pendente più verso il padre; - estensione dell’autorità paterna, il giusnaturalismo trasformò la concezione dei genitori considerati dei quasi in posizioni sempre più garantiste in favore dei figli. 2. La svolta democratica: da Locke a Rousseau L’idea dell’analogia fra potere paterno e potere regio si connetteva a concezioni autoritarie e assolutistiche che John Locke criticò duramente, in quanto il potere politico doveva fondarsi sul consenso mentre quello paterno da intendersi come naturale e il suo saggio fu un pilastro fondamentale per la costruzione di una società orientata sul bambino. Tale saggio consisteva in una serie di lettere ad un gentiluomo che gli aveva chiesto consiglio sull’educazione del figlio, proponendogli una concezione moderata vicina a quella umanistica ma staccandosene rispetto alle punizioni corporali. In un’altra sua opera, Locke inveì/offese contro la patria potestà, persino contro il suo nome, sostituendolo con il termine di potere parentale o parental power. Un potere parentale che presupponeva una titolarità comune al padre e dalla madre e una durata minore degli anni in cui la prole era incapace di gestirsi e il padre tenuto ad imporsi, superati questi confini tutto era da considerarsi un irragionevole abuso. Era insomma un idea di potestà temporanea dove una cosa era il dovere, il rispetto, la gratitudine, e un’altra era invece l’assoluta obbedienza e sottomissione. Locke infatti si chiedeva come era possibile che i genitori trasformassero la naturale cura dei figli in assoluto
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dominio del padre, e la risposta era proprio la loro incapacità di distinguere fra il “governo temporaneo” ristretto all’età minore di figli e il diritto perpetuo al rispetto, all’aiuto e all’ubbidienza; i genitori dovevano insomma esercitare un potere fondato sull’amore come Dio aveva insegnato. Le nuove idee suscitarono però reazioni di segno opposto. In sintonia, invece, con l’idea di Locke, fu Rousseau che nella sua opera il Contratto sociale, partiva dal presupposto che la più antica di tutte le società fosse proprio la famiglia, nella quale i figli restano legati al padre per quel tempo che hanno bisogno di lui, non appena tale bisogno cessa il legame naturale si scioglie. La sua opera segnò il pieno riconoscimento dei diritti del bambino, distinguendo 3 differenti modelli della considerazione del bambino: • vi era chi lo riteneva cattivo per natura, e quindi di essere sottoporre a una severa disciplina; • chi lo considerava buono per natura, e quindi di essere difeso dalle cattive influenze del mondo; • chi lo riteneva una tabula rasa, sulla quale si sarebbero impresse le esperienze che avrebbe vissuto, questa fu la posizione diffusa tra gli intellettuali. Per Rousseau insomma il buon adulto sarebbe stato chi da bambino fosse cresciuto secondo natura e senza l’imposizione di insegnamenti e regole, formando così il nesso bambino – natura, ma soprattutto slegando l’educazione dall’egocentrismo/egoismo verso una prospettiva sociale dove l’uomo non è più “uno” ma una unità della società. 3. Il padre di famiglia di Diderot e quello di Goldoni Sia l’opera di Diderot che di Goldoni, erano incentrate sul conflitto tra padri e figli intorno alle scelte matrimoniali rappresentando entrambe la rabbia e l’insofferenza causate ai figli da tale tirannia domestica; la società dei giovani ne era infatti ferita nel profondo producendo appunto le consuetudini più singolari. 4. L’inconciliabilità del patriarcato con la democrazia: Cesare Beccaria In tale cornice possono ben inquadrarsi le vicende umane e personali di Cesare Beccaria, che culminarono nel rifiuto del padre al suo matrimonio con Teresa Blasco e del suo provvedimento di arresto di Cesare perché figlio riottoso che gli disubbidiva. La nuora apparteneva ad una famiglia nobile ma non ricca, dunque non all’altezza delle aspettative che Saverio Beccaria (padre di Cesare) nutriva per il figlio. Di qui la richiesta d’arresto del figlio, internato per ben 3 mesi, e il conseguente ricorso del padre di Teresa per inadempimento della promessa di matrimonio; nonostante la detenzione e le tecniche di persuasione ad abbandonare tale progetto nuziale, Cesare rimase fermo nelle sue posizioni e non appena libero, si sposò. Il padre però, non li accolse in casa e si limitò solo a prestare loro scarsi alimenti, mentre la madre dispose che l’intera famiglia si vestisse di nero perché era come se Cesare fosse morto. Fu necessario l’intervento di Pietro Verri per far riappacificare padre e figlio e gli sposi essere accolti in casa. Ma evidentemente l’esperienza personale di Cesare non gli servì molto se poi, diventato a sua volta, padre non esitò a condizionare la libertà matrimoniale della figlia Giulia, imponendole il matrimonio con Pietro Manzoni. L’obiettivo principale del Beccaria fu quello di inquadrare la famiglia patriarcale come organismo politico all’interno di uno Stato dispotico o di uno Stato democratico. Nello Stato dispotico, quale aggregato di famiglie, la ragion di famiglia finiva per prevalere sulla ragione di Stato e il padre appariva come una sorta di despota. Viceversa nello Stato democratico il padre aveva poteri limitati e comunque circoscritti alla minore età. Insomma per il Beccaria la famiglia doveva recuperare le sue caratteristiche naturali, allontanando quelle valenze/valori politiche prettamente medievali. Sullo spirito della famiglia doveva dunque prevalere quello dello Stato e ciò divenne un’opinione piuttosto diffusa tra gli illuministi, che contrastava però con quella che una ventina d’anni prima aveva avanzato Montesquieu, sostenendo che all’interno di uno Stato democratico necessitava una patria potestà monarchica che sapesse compensare le scarse capacità di coazione tipiche della forma repubblicana, mentre all’interno di uno Stato dispotico poteva anche andar bene una patria potestà democratica visto che il regime monarchico aveva di per sé quel carattere assolutistico.
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5. La polemica illuminista per una patria potestà minima e temperata Oggetto di dibattito tra gli illuministi fu la questione riguardante i poteri domestici e l’educazione da impartire ai figli, e proprio il pensiero di Beccaria ne creò lo spunto. Il nocciolo della questione era incentrato sul contratto sociale e sui limiti e sugli effetti che esso causasse al potere paterno; premettendo che solo dal contratto sociale potevano scaturire le relazioni familiari, si soleva attribuire al padre un’autorità naturale sugli altri e una superiorità fisica piuttosto limitata, che non consisteva in una rigida ed assoluta gestione dell’educazione, come fin’ora apparsa, ma in una pubblica gestione dell’educazione tramite pubblici catechismi. Da qui il pensiero utopistico (che immagina un modello di governo, di sistema, di società, ideale in cui tutti vivono in perfetta armonia e felicità) che concepiva l’immagine della famiglia ideale fondata proprio sul contratto sociale il cui richiamo alla natura rappresentava un limite ai poteri paterni. Il concetto di natura, verso la metà del ‘700, iniziò però a perseguitare anche i legislatori, tanto che una delle prime testimonianze in tal senso fu il progetto di codice elaborato (da Cocceji) per Federico II di Prussia, che sfocerà poi nel codice prussiano del 1794. Il progetto in questione, nella parte dedicata alla famiglia, per i continui richiami che faceva alla ragione si scontrava con l’impostazione conservatrice e romanistica; un esempio fu quello di indicare chiaramente e minuziosamente le ragioni su cui è fondata la potestà del padre, ovvero che il diritto sui figli nasce perché essi sono dai genitori concepiti, sono una porzione di essi, fin in minore età necessitano di essere accuditi, educati e nutriti; sempre nella ragione e dunque nella natura si fondava anche il rapporto con la moglie, che lasciava la propria casa per entrare volontariamente in quella del marito di cui ne era il padrone e quindi il capo e insieme dare vita ai figli, che divenivano strumenti dati al padre dalla natura. Da queste ragioni la considerazione del padre come capo e padrone della famiglia e della casa, e l’idea di una patria potestà perpetua. Anche il potere correzionale appariva diviso tra esigenze patriarcali e moderazione illuminata, tra ordine e tutela dei diritti della persona, perché se da un lato i dovevano obbedienza al padre, in quanto capo della famiglia e autore della loro esistenza, sottomettendosi ai suoi ordini, dall’altro il potere del padre non poteva sfociare in un contrasto con le leggi naturali e divine, potendo dunque si punirli ma con moderazione e razionalità (rimproveri, sgridate, ecc.) senza forme di violenza e cattiveria. Insomma la famiglia continuava sempre a mutare nel corso del tempo. 6. La Rivoluzione e l’abbattimento della paterna tirannide In merito alla patria potestà se, Pothier sosteneva che fosse più somigliante a quella di un tutore che a quella di un padrone, riducendosi così al solo diritto dei genitori di governare con autorità la persona e i beni dei loro figli, ed essendo poi stabilita più a favore dei figli che a vantaggio loro, finiva quando i figli si reputavano in grado di governarsi da soli, ovvero al raggiungimento della maggiore età. Inoltre i poteri correzionali del padre si andarono rafforzando con la presenza di Ordonnances regie, in particolare accresciuti furono il potere d’incarcerazione del figlio, di giustizia domestica, di scelta matrimoniale, ecc. All’epoca della rivoluzione se, nel 1789, la patria potestà negli ambienti acculturati e illuminati godeva di pessima fama, in quanto incoerente e dispotica e sostenuta da una legge innaturale, l’alternativa era infatti quella della democratizzazione della patria potestà, intesa in maniera più moderata e sottoposta alle leggi ordinarie, le quali dovevano svolgere una funzione pedagogica/educativa per rimodellare la morale quale maggiore valore sociale. Ciò nonostante i primi progetti di riforma furono tutt’altro che originali, perché la loro unica preoccupazione fu solamente quella di riconoscere una qualche garanzia ai figli mantenendo comunque un solido potere paterno; le posizioni più influenti di quel momento si spostarono poi verso la prospettiva di una vera e propria abrogazione della patria potestà e di una rigenerazione della famiglia, ma si dovette attendere l’emanazione del codice civile del 1804 per una più articolata disciplina legislativa del potere paterno. Si iniziava così a fissare per legge i contenuti dell’educazione, la cui inosservanza comportava la somministrazione degli alimenti in favore dei figli per l’intera loro vita. 7.
Tradizione e moderazione nel modello austriaco
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Nell’esperienza familiare austriaca il primo punto di arrivo in tema di patria potestà si poté evidenziare nel codice di Giuseppe II del 1787, dove trasparivano chiaramente due norme concernenti il rapporto dei figli col padre e con la madre: - i figli erano obbligati a portare al padre rispetto, ubbidienza e di rassegnarsi pienamente alla sua volontà; - i figli erano obbligati a prestare alla madre lo stesso rispetto e anch’essa aveva il diritto di dare consiglio ai figli e di educarli con moderate punizioni. Tale concezione austriaca della patria potestà si stabilizzò poi nella versione finale del codice civile del 1811 (ABGB), nel primo libro dedicato alla famiglia. I diritti esercitati dal padre, in quanto capo famiglia, andavano a costituire la patria potestà che però rappresentava solo un tassello del rapporto con i figli, essendo principalmente obbligato a mantenerli sino a che essi non potessero provvedervi da se, mentre la cura incombeva principalmente alla madre; la patria potestà cessava poi con la maggiore età, e venne comunque data la possibilità di chiedere una deroga a questo principio giustificata dall’incapacità del proprio figlio, o di condotta ata che richiedeva ancora una sua soggezione alla potestà paterna. Tassativi o meno che fossero, i principi sanciti nel codice erano comunque elastici anche se si avvertivano negativamente le soluzioni adottate internamente alla famiglia che sfuggivano ad un controllo pubblico, così come si diffidava dall’emancipazione rimessa al padre in quanto essa poteva essere sancita solo tramite autorità civile che ne fissava la maggiore età secondo i rapporti locali. 8. Il radicalismo tradizionalista degli stati italiani preunitari Tre modelli in particolare attirarono l’attenzione del dibattito preunitario italiano sulla patria potestà: - quello romano, il cui modello di famiglia si sostanziava nell'ordine del padre di famiglia; - quello napoleonico, il cui modello di famiglia seppur ormai sconfitto continuava a diffondere disgregazione e disordine; - quello austriaco, il cui modello di famiglia appariva più moderato di quello se. Un pò in tutta l’Italia del primo ‘800 iniziava a farsi strada l’idea di togliere una volta per tutte lo scettro di ferro dalle mani del padre di famiglia, idea che si scontrava con quella di chi invece volesse mantenerlo ancora ben saldo, ma tra contraddizioni e ambiguità ci si avviava davvero verso la crisi di un’istituzione tanto discussa. Ma seguiamone le varie fasi. La patria potestà del tardo ‘700 italiano restava rigorosamente agnatizia (per discendenza paterna) e perpetua; il figlio formalmente non cresceva mai finché il padre era vivo mentre quest’ultimo padre poteva contare sugli antichi poteri di incarcerazione, di controllo matrimoniale duramente sanzionato e di diseredazione. Dunque il peso della tradizione erano ancor ben evidenti nonostante i tentativi di codificazione nazionale dell’età napoleonica. Con la Restaurazione, prima preoccupazione dei sovrani legittimi fu il recupero dell’ordine patriarcale, con una notevole diversità di soluzioni; ad esempio Roma, Torino, Firenze, Parma e Modena sancirono la patria potestà agnatizia (discendenza dell’avo paterno) e penalizzarono il ruolo della madre. A tal proposito si distinguevano 2 forme di autorità paterna: - la patria potestà naturale, la cui titolarità spettava ad entrambi i genitori, di durata perpetua, con contenuti generici ovvero il generico obbligo di rispetto e obbedienza da parte dei figli; - la patria potestà civile, la cui titolarità spettava solo al padre o meglio al primo ascendente maschio in linea paterna, di durata fino alla maggiore età, con contenuti fissati e disciplinati dal codice. In tal contesto l’elemento della perpetuità rappresentava il simbolo di distinzione della patria potestà rispetto alla tutela, limitata alla minore età la prima, illimitata la seconda. Al riguardo significativa fu l’esperienza della commissione sabauda nell’elaborazione del codice civile di Carlo Alberto, se prevedere la cessazione della patria potestà ad un’età prefissata o se incidere sugli specifici poteri paterni; un problema insomma sia ideologico, che formale, che politico, in quanto gli effetti di fondo erano analoghi ma la perpetuità faceva la differenza. E così fu, si optò per la perpetuità della patria potestà,
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perché fondamentalmente un insostituibile elemento della tradizione, ma se ne limitarono nel tempo gran parte degli effetti tanto da parlarsi di perpetuità solo formale, in quanto di fatto, in sostanza, la potestà del padre piemontese cessava al compimento del 25°anno di età del figlio. Analoghe considerazioni si riscontrarono anche nell’Italia restaurata, seppur con qualche variante, dove evidente fu l’opzione di scelta tra perpetuità o cessazione della patria potestà al compimento della maggiore età; scelta che si ricollegava alla distinzione tra potestà e tutela. Ad ogni modo se già nel periodo della restaurazione si oscillava tra queste 2 opzioni, dopo la metà dell’800 quella della perpetuità venne ancor più vacillando fino alla scomparsa all’indomani dell’Unità d’Italia. 9. Schematizzazione comparatistica delle leggi civili della prima meta dell’800 (leggere) - Codice civile napoleonico (1804) titolarità: padre, subordinati e limitati diritti della madre; 21 anni: maggiore età generica; 21 anni: emancipazione legale dalla patria potestà; 21 anni: amministrazione legale paterna dei beni del figlio; 21 anni: potere d'arresto per un massimo di sei mesi su iniziativa paterna e vaglio giudiziale; 21 anni per i maschi e 25 anni per le femmine: potere di consenso al matrimonio dei figli; - Codice civile austriaco titolarità: padre, subordinati e limitati diritti della madre; 24 anni: maggiore età generica; 24 anni: emancipazione legale dalla patria potestà, salvo proroga su istanza del padre; 24 anni: amministrazione legale paterna dei beni del figlio; 24 anni: potere d'arresto per un massimo di sei mesi su iniziativa paterna e vaglio giudiziale; 24 anni: potere di consenso al matrimonio dei figli; - Codice civile per gli Stati Estensi titolarità: padre o ascendente paterno, subordinati e limitati diritti della madre; 21 anni: maggiore età generica; 25 anni: emancipazione legale dalla patria potestà; 21 anni: amministrazione legale paterna dei beni del figlio; 25 anni: potere d'arresto per un massimo di sei mesi su iniziativa paterna e vaglio giudiziale; 25 anni: potere di consenso al matrimonio dei figli; 10. Correzione e garanzie domestiche in Francia Sempre in Francia i pubblici poteri fornivano ai padri un valido ausilio consentendo loro il potere di incarcerare i loro figli per diverse ragioni e in particolare per le scelte matrimoniali non condivise; i delegati del re concedevano all’occorrenza l’autorizzazione su richiesta della famiglia ma a spese di quest’ultima, si diceva infatti che chi avesse voluto punire un parente prima avrebbe dovuto supplire il re spiegandogli le proprie ragioni e convincerlo così a farsi concedere l’autorizzazione e poi avrebbe dovuto finanziare il re per le spese di detenzione. Negli anni della Rivoluzione sistema venne sempre meno praticato e poi col preciso intento di contenere il potere dei padri e di democratizzare le relazioni familiari, fu valorizzata un’antica istituzione se, quella dei tribunali di famiglia, cui i genitori o i parenti di un soggetto potevano rivolgersi per denunciarne la condotta riottosa, ormai ingestibile. Il tribunale domestico avrebbe dovuto assolvere una funzione correzionale e garantista accanto a quella del padre, controllandone così eventuali irregolarità al fine di tutelare moglie e figli. Gli uomini di legge furono così chiamati ad integrare i tribunali di famiglia, anche se di fatto operarono più per questioni successorie che non per il potere correzionale paterno, che rimaneva spesso occultato dall’omertà della famiglia. Il codice civile napoleonico riconobbe il potere paterno di far arrestare i figli, ma lo circoscrisse in un ambito piuttosto rigido, nel quale si prevedeva
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che l’internamento fosse limitato ad un periodo massimo di uno o sei mesi secondo l’età del figlio, e preceduto da un necessario controllo giudiziario. Interessante era invece quello che il codice non diceva, ovvero mentre esso abbondantemente disciplinava il potere correzionale dei padri, nulla prevedeva in merito ai modici castighi corporali, probabilmente perché essendo unanimemente riconosciuti ed ammessi, erano talmente ovvi da non riconoscerne la necessità di una previsione espressa, per questo la relativa disciplina si estrapolava dalle interpretazioni dottrinali. Ma ancora più emblematico fu l’assenza di previsione degli abusi dei poteri potestativi, probabilmente per la visione che i codificatori ebbero del padre ideale, tale da non esserne altrettanto necessaria una specifica disciplina. In realtà però non era così e i casi di abuso erano infatti piuttosto frequenti; le uniche disposizioni erano contenute in pochi articoli che prevedevano la decadenza della patria potestà nel caso i genitori avessero incoraggiato i figli a prendere brutte strade, anche se più che norme a tutela dei figli erano norme di disciplinamento per i genitori. Di qui l’intento e l’impegno dei giuristi di colmare tali lacune anche se le disposizioni a cui potevano appigliarsi rimaneva comunque scarne. Dunque per la piena previsione del caso di abuso della patria potestà sarebbe stata necessaria una riforma legislativa e fu infatti con una legge del 1889 che il diritto se introdusse la decadenza della patria potestà per abuso, ma il potere paterno di incarcerazione del figlio fu definitivamente abrogato solo più tardi con un decreto legge del 1935. 11. L’esperienza austriaca: garantismo e statalismo Il codice civile austriaco (ABGB) accolse al contrario, un’articolata nozione di abuso della patria potestà, definendolo e disciplinandolo secondo comportamenti omissivi e positivi. Infatti il padre che abusava del potere potestativo o pregiudicando i diritti dei figli o omettendo di eseguire i doveri imposti, i figli e non solo, potevano richiedere l’assistenza del giudice al fine di applicare le dovute tutele e sanzioni. Lo Stato si preoccupava dunque di salvaguardare gli interessi dei figli minori, infatti la denunzia degli abusi poteva essere effettuata da chiunque ne avesse avuto notizia. La stessa procedura era poi applicato ad un altro frequente caso, quello in cui i padri erano impossibilitatati a gestire la disciplina domestica richiedendo l’ausilio delle pubbliche autorità e la cui ratio era quella di assicurare il riequilibrio familiare. 12. Vestigia della tirannia domestica nell’Italia della Restaurazione Dopo la parentesi napoleonica, i problemi dei poteri correzionali divennero nuovamente di attualità durante la Restaurazione, infatti mentre i codici preunitari più legati al modello se non accolsero una definizione del potere di castigo domestico, dandolo per scontato, adesso necessitava darne maggiore attenzione. Di massima la normativa se in materia ebbe comunque un buon successo in Italia fino a quando un movimento d’idee ostile prese forma soltanto e quando diventò una sorta di simbolo di dittatura domestica. Sono le premesse della definitiva estinzione dell’istituto nel codice civile del 1865. Al di là di queste prospettive, nel frattempo la tutela della società domestica iniziava ad acquistare rilevanza anche per il diritto penale che prestava attenzione alle questioni familiari contrarie all’ordine pubblico e al buon costume e solo la legislazione albertina sanzionò penalmente l’abuso della patria potestà. Il problema si poneva in relazione all’effettività di tale tutela, la cui via poliziesca sembrava essere quella migliore e diffusa; nell’Italia preunitaria al riguardo divennero fondamentali i regolamenti di polizia. 13. Matrimoni alla se e matrimoni all’austriaca La Rivoluzione agì in maniera piuttosto incisiva sulla secolare questione della libertà matrimoniale nel contesto delle relazioni domestiche. Una legge del 1792 aveva fissato l’età matrimoniale ai 21 anni, i matrimoni dei minorenni senza il consenso degli aventi potestà erano nulli, mentre dal maggiorenne null’altro era dovuto se non la sua libera volontà. A protezione dei padri il codice prevedeva però tre strumenti: - la sanzione civile della nullità del matrimonio del minore, - la sanzione penale dell’ammenda a carico del negligente ufficiale di stato civile,
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l’azione preventiva del diritto d’opposizione, che doveva però fondarsi su impedimenti concludenti, che risolvessero effettivamente la questione. In realtà lo strumento dell’opposizione non fu tanto utilizzato per evidenziare un ostacolo normativo al matrimonio (come ad esempio poteva esserlo la presenza di un vincolo di parentela), quanto come strumento classico di esercizio della patria potestà. Si cercava insomma con le opposizioni di mantenere permanente l’arma della potestà, anche se il tentativo fu vano, visto che nel codice napoleonico non venne riproposta. 14. Vecchio e nuovo nei modelli matrimoniali italiani preunitari Nell’Italia della Restaurazione il rafforzamento della patria potestà e la predisposizione di deterrenti/freni contro i matrimoni diseguali restarono ancora presenti. Abrogato il matrimonio civile, i sovrani che lo legittimavano ammisero la validità del matrimonio del minore senza consenso parentale occupandosi esclusivamente degli effetti civili. Un pò in tutte le esperienze codicistiche si poté poi notare un forte inasprimento della patria potestà autoritaria, in partcolar modo in merito al matrimonio e simbolo principale di ciò ne fu il codice Albertino; nell’esperienza sabauda infatti il regime previsto per il l’assenso agnatizio (del padre) prevedeva diseredazioni e sanzioni patrimoniali, riprendendo aspetti dell’antico regime, tanto che nel distinguere le 3 figure di matrimonio sanzionato, ovvero: - il matrimonio senza consenso paterno, - il matrimonio disonorante, - il matrimonio capriccioso, la normativa prevista optò per la conservazione dell’autorità patriarcale. Ad ogni modo non tutte le motivazioni del dissenso paterno potevano essere giustificabili di impedimento al matrimonio, nei domini sabaudi infatti il bruto carattere o la minore età o la differenza di stato sociale non potevano essere sufficienti. 15. Il fatale declino del ricatto successorio Le strategie domestiche del padre proprietario contavano principalmente sul potere sanzionatorio riconosciutogli dal diritto successorio, con riferimento alla diseredazione ed alla quota disponibile per testamento; di fatto il condizionamento testamentario restava una delle armi paterne più efficaci, anche se nel tempo andavano indebolendosi. Al riguardo vi furono comunque diverse tesi. Se fin dai primi anni della rivoluzione di optava per l’abolizione della diseredazione come ricatto matrimoniale, Napoleone sostenne invece personalmente tale strumento successorio a vantaggio della potestà paterna; anche il diritto comune d’antico regime ammetteva la diseredazione nelle ipotesi elencate da una novella giustinianea, anche se non tassative. Tassative erano invece le ipotesi di diseredazione contemplate nel codice austriaco , secondo il quale si poteva diseredare un figlio se: - abbia rinnegato la religione cristiana; - abbia lasciato il testatore in stato di miseria senza soccorso; - sia stato condannato per delitto al carcere a vita o per vent’anni; - tenga ripetutamente una condotta contraria alla pubblica moralità. In Italia il potere di testare e di diseredare non fu mai messo seriamente in discussione e la più importante novità si ebbe con i codici preunitari che imposero la tassatività delle cause di diseredazione (prima ammesse anche al di fuori delle cause espressamente previste). Fu con il progetto di codice civile di Pisanelli e l’entrata in vigore poi del codice nel 1865 che si segnava la definitiva scomparsa della diseredazione; Pisanelli diede insomma voce a tempi nuovi che avrebbero offuscato l’immagine regale/maestosa del padre di famiglia, privo ormai del potere di nomina del proprio successore. Il padre di famiglia, re della casa stava per essere per sempre spodestato/cacciato. CAP 5°: La patria potestà politicamente scorretta 1. Novecento: il secolo del bambino
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A partire dagli anni ’60 e ‘70 del 20° secolo, nell’Europa occidentale si avviarono una serie di riforme sullo stato giuridico della famiglia. Nelle democrazie liberali, ma anche nelle esperienze totalitarie, la struttura dei diritti e dei doveri dei codici ottocenteschi era ancora evidente, sia pure con alcuni temperamenti, quali una maggiore repressione degli abusi domestici. Le relazioni domestiche mantennero infatti una fisionomia ma con un’invadenza dello Stato che entra sempre più nelle famiglie in nome del figlio. Insomma i poteri domestici tra ‘800 e ‘900 andavano letti all’interno di un contesto sempre più dominato dallo Stato. Il ‘900 fu inoltre definito il secolo del bambino o meglio il secolo del puerocentrismo, (ovvero quella teoria pedagogica che pone il bambino al centro dell’azione educativa e didattica, rivendicandone il valore come persona e quindi il diritto a uno sviluppo armonico e integrale, fondato sul rispetto della sua autonomia e libertà) promosso dallo Stato nell’interesse che ciascun bambino/a diventasse un onesto/a cittadino/a. Infatti mentre precedentemente il genitore-educatore era spinto a rendere il fanciullo adulto il prima possibile, facendolo lavorare per contribuire all’economia della famiglia, adesso ci si concentra a garantirgli un infanzia adeguata in quanto tale. Ciò non solo cambiò la posizione dei bambini, ma alterò soprattutto la percezione dei genitore verso i figli che dovettero fare meno di loro. Ma a cambiare fu anche il rapporto genitori-figli, soprattutto nelle famiglie povere o disagiate, prevedendo l’intervento di terzi soggetti, come medici, uomini di Stato, ecc 2. Istituto di diritto pubblico? L’opinione di Antonio Cicu Il dibattito circa la collocazione del diritto di famiglia nel diritto pubblico o nel diritto privato apparve uno dei più significativi degli ultimi 2 secoli, anche se la problematica non era del tutto nuova, presente già nel diritto comune medievale. Certo non poteva rivestire la stessa importanza visto che di per sé lo Stato non aveva ancora quella spinta di diffusione che acquisterà solo dopo la rivoluzione se. In tal contesto la figura maggiormente di spicco fu quella del giurista Antonio Cicu culturalmente cattolico e nazionalista, che propugnava una concezione organicistica della famiglia e un’individuazione del relativo diritto come terzo genere tra il diritto pubblico e il diritto privato. Il Cicu sosteneva che la volontà del padre esprimesse la volontà della famiglia in quanto istituzione organica e che la patria potestà attestasse un organizzazione di potere finalizzata ad uno scopo ben preciso; non a caso tale potere è tutto incentrato sull’adempimento di un dovere piuttosto che sull’idea di diritto. L’interesse familiare è unico come lo è quello dello Stato, così come il rapporto tra cittadino e Stato si riconnette a quello tra padre e figlio, sovranità e potestà sono il prodotto di organi e funzioni tipico di ogni organismo. In fin dei conti la famiglia disegnata dal Cicu era una famiglia che assomigliava alla Stato, ma non faceva parte dello stesso. 3. Padri fascisti: per un figlio soldato e produttore Di fatto l’incidenza dei regimi totalitari sui poteri domestici fu modesta; le loro relative politiche rimasero più implicite che esplicite, in quanto prodotte come conseguenza di altri interventi. E pensare che i precedenti familiari e domestici dei leader furono piuttosto significativi e diversi: - il padre di Stalin fu violento e picchiava spesso sia lui che la madre; - il padre di Hitler fu invece disinteressato e assente; - il padre di Mussolini fu piuttosto severo ma nonostante ciò erano piuttosto legati. Premesso ciò le politiche dei regimi di destra, ovvero Italia, Germania e Spagna, proposero dei modelli di famiglia patriarcale cui si contrapponeva il kolchoz sovietico (economia collettiva agricola, cooperative agricole). Tutti comunque svolsero una politica fortemente incentrata sul natalismo, per incentivare lo sviluppo delle nascite, in quanto gli ideologi della destra lamentavano la crisi della famiglia italiana, le sue dimensioni sempre più piccole, la perdita di autorità da parte del padre, il malcontento delle casalinghe, ecc. Che il potere paterno su figli venisse declinato dipendeva, in realtà, da molteplici fattori socio-economici, quali il lavoro femminile, l’industrializzazione, ecc. che venivano affermandosi anche in Italia. Ma il momento che evidenziò quelli che erano gli animi e gli umori interni al fascismo fu quello che nato dal dibattito e dal contrasto tra desiderio di modernità da un lato e desiderio di restaurazione del tradizionalismo
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dall’altro. Dunque se lo Stato riconosceva la famiglia come sacrosanta ed indivisibile dall’altro consentiva ogni forma di ingerenza da parte della dittatura e le opinioni di quanti scrissero relativamente a questo argomento furono ampiamente discordanti, a ulteriore dimostrazione delle diverse idee del movimento fascista, ma si trattava di un problema ideologico comune anche ad altri totalitarismi; in Germania ad esempio analoghe contraddizioni caratterizzarono l’ideologia nazionalsocialista e la sua politica, il cui obbligo di fedeltà verso il fuhrer metteva in discussione i vincoli familiari e l’autorità dei genitori. Proprio in materia di politica della famiglia il nazismo muoveva dal principio per cui il corpo delle persone non apparteneva alle stesse ma alla loro stirpe e al loro popolo, tanto che la pedagogia di quegli anni prevedeva la sottrazione dei figli ai genitori per farli crescere in appositi istituti e secondo quella specifica ideologia. Nel quadro del fascismo italiano il modello di famiglia che rimase invece più condiviso fu quello della famiglia patriarcale, condito da un forte maschilismo. Principio gerarchico e principio razziale dovevano disegnare la geometria della famiglia fascista, la famiglia era il necessario veicolo dell’identità razziale, in quanto è dalla famiglia che si ereditava il cognome, i connotati fisici e caratteriali, il ato, ecc. e proprio il ato, tanto più lontano era tanto più forte era il senso della razza. Si diceva infatti che più la famiglia era sana, tanto più sana era la razza; dunque razza e gerarchia familiari trovarono un alleato naturale della famiglia rurale (mezzadria), tradizionalista ed estesa, uno dei grandi modelli della propaganda e dell'etica fascista. 4. Il regime fascista alla prova dei codici La politica fascista della famiglia si espresse in più parti del codice penale del 1930 (detto anche codice Rocco), il quale prevedeva un allargamento e un potenziamento dell’intervento statale sulla società; lo Stato doveva infatti rivolgere costantemente la sua attenzione all’istituto della famiglia che era centro di diffusione di ogni civile convivenza, al fine di tenerla più compatta possibile ed evitare disgregazioni. Emergeva insomma un’impostazione anti individualista e familista che considerava i maltrattamenti familiari reati contro la famiglia e non contro la persona; al codice penale si affiancava poi l’autorità della polizia per adempire ad ordini di pubblica sicurezza. Il codice civile fascista del 1942 invece non modificò molto il vecchio assetto liberale post-napoleonico del codice del 1865. A consolidare l’unità domestica fu poi l’introduzione del patrimonio familiare che consisteva in beni immobili o titoli di credito. Un momento importante venne poi rappresentato da una norma che prevedeva l’obbligo per i genitori di educare i figli secondo la morale e il sentimento nazionale fascista, e un’educazione in contrasto con tale ideologia del regime determinava la perdita della patria potestà sui figli e il loro affidamento ad altri. Più specificatamente la trasgressione degli obblighi in questione configurava non soltanto un illecito civile ma anche un reato penale di violazione degli obblighi di assistenza familiare. Inoltre lo Stato considerava la protezione dell’infanzia e della giovinezza come un’alta funzione pubblica che poteva assolvere attraverso i suoi organi ed istituti, attraverso l’intervento nelle attività educative familiari, attraverso la protezione dei figli illegittimi e attraverso l’assistenza dei minori abbandonati. Di fronte a ciò il padre si configurava come un delegato dello Stato nell’educazione dei figli ed in quanto tale sottoposto al controllo di quest’ultimo. Più dettagliatamente chi esercitava la patria potestà veniva considerato cooperatore essenziale dello Stato ma non poteva essere lasciato libero di educare come credesse la prole. Il legislatore prevedeva infatti, la decadenza della patria potestà se il genitore avesse violato il dovere giuridico ad essa inerente e abusato sia in senso positivo che negativo della stessa. La caduta del regime fascista non determinò la conseguente caduta sei codici fascisti ma soltanto una loro ripulitura. 5. Padri comunisti: da Marx all’Unione sovietica La rivoluzione comunista in Russia si era proposta come una sorta di ribellione dell’istituzione familiare, sulla base della riflessione marxista. Prima di Marx il socialismo aveva assunto nei confronti della famiglia atteggiamenti critici ma non demolitori, limitandosi a proporre riforme in senso egualitario dei rapporti domestici. Dal pensiero marxiano i costumi familiari furono riletti quali ornamenti inutili e la famiglia diventava un evento storico. Una visione negativa della famiglia, in quanto luogo di assolutismo e mezzo di
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trasmissione dei valori tradizionali promossi dal potere politico, fu la base fondante della posteriore riflessione marxista. Di massima, il pensiero marxista si venne svolgendo fra 19° e 20° secolo in direzione del superamento non della famiglia in quanto tale, bensì della famiglia borghese. L’assetto dei rapporti domestici che la rivoluzione bolscevica si trovò dinnanzi era strettamente connesso al diritto imperiale zarista, nel quale vi era delineata una famiglia fortemente patriarcale incentrata su una illimitata e perpetua potestà paterna, salve le limitazioni poste dalla comunità di villaggio. Si trattava comunque di un sistema povero di norme e plasmato dalla prassi giudiziaria. Il giovane Stalin ne aveva ben conosciuto le asprezze, essendo suo padre un uomo rozzo e violento che picchiava continuamente sia la moglie che lui stesso, e che per questo divenne altrettanto duro e crudele, anche più del padre. La riforma più importante della rivoluzione fu lo scorporo del diritto di famiglia dal diritto privato, una separazione che sopravvivrà alla seconda guerra mondiale e che sarà accolta nei paesi d’area sovietica. Più in generale nel periodo rivoluzionario si affermò la tendenza alla giuspubblicizzazione di tutto il diritto privato, tanto che Lenin stesso si chiedeva se un diritto privato potesse effettivamente mai esistere nel sistema di governo sovietico. Il codice sovietico della famiglia del 1918 escluse il termine di patria potestà e introdusse un controllo giudiziale sui rapporti domestici, riformando i poteri della famiglia russa verso una con-titolarità degli stessi ed una costante sorveglianza pubblica. Da qui l’iniziare di una diffidenza verso il patriarcato e la sua incompatibilità con la società sovietica, e il considerare la donna una possibile buona madre. Infatti negli anni ‘30 si rappresentava la famiglia come un’organizzazione libera da qualsiasi traccia di supremazia paterna che poneva al centro l’attenzione per il bene del bambino e dunque per il puerocentrismo, partendo dal fatto che i proprio i bambini rappresentavano il futuro. Per questo lo Stato si sentì autorizzato a programmare e realizzare l’intero processo educativo di ogni cittadino. 6. Microcosmi: la zadruga slava e il kanun albanese (in generale) Nonostante quanto concluso nel precedente paragrafo, fra 19° e 20° secolo, nell'Europa proiettata verso il puerocentrismo e lo Stato paterno sopravvivevano microcosmi patriarcali, che spesso furono oggetto di riflessione culturale. Fu il caso della zadruga slava, quale comunità domestica patriarcale, che rappresentava il aggio dalla famiglia matriarcale (matrimonio di gruppo) alla famiglia monogamica (matrimonio tra un solo uomo e una sola donna) moderna; in realtà non fu molto agevole delineare tale linea continuativa dall’alto medioevo all’età moderna. Essa fu inoltre un istituto consuetudinario, che nell’800 divenne oggetto di disciplina normativa e tipica degli slavi del sud, si conservò anche sotto la dominazione turca. Quando la Serbia si guadagnò l’indipendenza, la zadruga disciplinata dal diritto consuetudinario, rappresentava la forma più usuale dell’organizzazione familiare; consisteva poi in un modello di famiglia complessa (anche più di 100 componenti), cui il codice serbo poneva come suoi requisiti la parentela, la comunione dei beni, la vita e l’attività lavorativa in comune, era insomma un’associazione di parenti, di lavoro, di patrimonio, organizzata sul fondamento dell’eguaglianza di diritti e doveri dei maschi maggiorenni a fronte di una netta inferiorità dei membri femminili, un’inferiorità che si andava attenuando con i codici ottocenteschi. Il governo della famiglia era poi esercitato da un Consiglio, composto dai membri maschi maggiorenni e guidato dallo staréchina, che aveva la rappresentanza della zadruga verso l’esterno oltre che poteri incisivi sul piano patrimoniale e personale e tutore di tutti i minorenni e gli incapaci; sua collaboratrice era la staréchitza, ovvero la moglie priva di poteri. Molto cambiò nel 2° dopo guerra con il nuovo regime comunista. Altro esempio di localismo più crudo e ferrigno fu quello presente in certe consuetudini albanesi, l’antica organizzazione familiare albanese si sviluppava dalla famiglia alla tribù, il modello era quello della famiglia complessa patriarcale, caratterizzata dalla coabitazione di più coppie imparentate. Capo di casa era il maschio più vecchio, a lui competevano poteri coercitivi che arrivavano alla possibilità di erogare pene corporali, e tutti gli dovevano obbedienza; la raccolta delle consuetudini locali, dette kanun, elencava tali diritti ed obblighi. Tra i diritti il capo della famiglia albanese aveva: - il diritto al posto d’onore;
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il diritto di disporre liberamente delle armi, dei cavalli, dei guadagni della famiglia, dei beni di proprietà; - il diritto di punire i membri della famiglia nel caso avessero agito contro il benessere della stessa; ecc. Tra gli obblighi del capo, vi era invece: - l’obbligo di curare e mantenere la ricchezza della famiglia; - l’obbligo di recarsi a lavoro; - agire con saggezza e prudenza; ecc. La donna in quanto tale era priva di poteri e diritti patrimoniali; doveva occuparsi della casa e dei componenti della famiglia. Per quanto riguardava invece gli altri membri, avevano solo compiti di collaborazione e controllo, limitati e sottoposti al controllo del capo. All’interno di tale tipologia di famiglia si respirava insomma aria di famiglia patriarcale. 7. La responsabilità genitoriale nel tardo Novecento La Seconda Guerra Mondiale accelerò notevolmente il processo di abbattimento delle ultime tracce patriarcali. Puerocentrismo, eguaglianza dei genitori, scomparsa del capofamiglia, rigida divisione dei ruoli, aumento dell’intervento giudiziale per l’interesse del minore, annullamento dello ius corrigendi, privatizzazione del matrimonio e delle relazioni familiari, nella seconda metà del ‘900, sono i profili concomitanti/contemporanei di una comune evoluzione europea. Appare emblematica in tale contesto, la vicenda del cognome, simbolo della supremazia paterna, in diversi paesi si era affermata la possibilità di permettere la scelta del nome di famiglia, tra quello del padre e quello della madre. Gli anni ‘70 segnarono in Italia, come in Francia, la crisi definitiva del modello ottocentesco. Un esempio del trend/tendenza europeo/a fu la riforma italiana del diritto di famiglia del 1975, grazie alla quale la potestà diventava rigorosamente parentale con una piena bi-titolarità del padre e della madre, oltre che più strettamente finalizzata all’interesse dei figli, scompariva il dovere di onorare i genitori e restava il riferimento a un generico rispetto, che pareva indicare un apporto paritario e non di soggezione-subordinazione tipico dell’idea dell’onore. L’obbiettivo era insomma quello di cancellare l’ormai falso mito della patria potestas assolutistica che concentrava tutti i poteri nel capo maschile, escludeva da essi la moglie e creava rivalità tra i figli per attirare l’attenzione del capo; unico criterio rimaneva quello che imponeva di tener conto soltanto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni del figlio. L’eventuale conflitto tra libertà del figlio e autorità del padre doveva essere risolto con una soluzione compatibile tra interessi del minore e unità della famiglia. Era così che ogni residua traccia dell’antico potere veniva definitivamente cancellato. Inoltre qualsiasi forma di abuso, qualsiasi disagio del figlio poteva essere denunciato al giudice, oltre che da un genitore, da parte dei parenti o dello stesso figlio ultraquattordicenne, ma anche su iniziativa del pubblico ministero o dell’ufficio di pubblico tutore. Nel contesto familiare lo Stato va a insomma porsi quale garante dell’eguaglianza formale e sostanziale, quale tutore dell’individuo debole e dei suoi diritti; il rapporto era tutto tra pubblica autorità e singolo cittadino. Il puerocentrismo diveniva l’interesse predominante, la cui educazione del minore doveva essere coordinata con il potere-dovere del genitore; definitivamente morto e sepolto appariva così il potere correzionale, pur modico, sul piano fisico, tanto cha la Cassazione penale italiana ha stabilito che con il termine “correzione” altro non deve intendersi che “educazione”, impartita rispettando i principi e i diritti del fanciullo fissati nella convenzione dell’ONU del 1989, che esclude qualsiasi forma di violenza.
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